INTRODUZIONE ALLA FOTOGRAFIA MARCHIGIANA  
di Simona Guerra

Le Marche sono considerate da più di tre generazioni una “terra di fotografia”.
In questa regione, e in particolare attorno a due centri urbani - quali sono Senigallia e Fermo - si sono dapprima formati e poi incontrati molti autori che, in maniera differente, si sono distinti nel tempo per il loro lavoro e per la passione che hanno dimostrato, a vario titolo, nei confronti della fotografia.

Parrebbe un’idea bizzarra, di primo acchito, il credere che un luogo così defilato rispetto ai grandi centri italiani della cultura - quali sono sempre stati Roma, Milano o Torino, per citarne solo alcuni - si sia conquistato, nel tempo, un tale appellativo, soprattutto se conosciamo la quasi totale mancanza di comunicazione e scambio culturale/fotografico di cui le zone più isolate l’Italia hanno fortemente sofferto soprattutto a partire dal secondo dopoguerra.

Pare invece che le Marche abbiano vissuto una storia particolare, per ciò che riguarda la fotografia, perché nel tempo scambi e confronti sono stati numerosi e decisamente molto prolifici.

Il decennio più importante di questa storia rimane certamente quello degli anni ’50 durante i quali sono nate due “scuole” – antitetiche, quanto produttive - riconosciute come tasselli importanti per la comprensione della più ampia storia della cultura fotografica nazionale: a Fermo, attorno alla figura magistrale di Luigi Crocenzi (1923-1984), nasce nel 1954, e negli anni successivi si sviluppa, l’attività del Centro per la Cultura nella Fotografia, sin dal principio dimostratosi interessato ai legami che il mezzo fotografico poteva instaurare con altre arti quali il cinema, la letteratura, la poesia; a Senigallia, nello stesso anno, su iniziativa dell’intellettuale Giuseppe Cavalli (1904-1961) si forma il Gruppo Misa, un sodalizio di autori che credeva fortemente in una fotografia attenta alla composizione e all’opera come arte, slegata dal discorso sociale e interessata soprattutto alle forme geometriche, alle composizioni grafiche e meno al significato che il soggetto poteva restituire all’occhio dell’osservatore (come il nostro nascente foto-giornalismo italiano stava sostenendo in quegli stessi anni).

È con questi significativi stimoli che hanno iniziato il loro “viaggio” molti giovani fotografi appartenenti a una seconda generazione: Ferruccio Ferroni, Riccardo Gambelli, Eriberto Guidi, Romano Folicaldi, ed anche il più grande autore italiano del ‘900, Mario Giacomelli.

Successivamente, seppure in un tempo molto diverso da quello dell’associazionismo tipico del dopoguerra, ovvero attraverso un lavoro condotto in maniera molto più individuale, un’ulteriore generazione di autori seguita oggi qui ad operare nel segno della fotografia.

Autori come Eva Frapiccini, Giovanni Marrozzini, Lorenzo Cicconi Massi, Ignacio Maria Coccia, fra gli altri, stanno mostrando da un lato di aver mantenuto un legame forte e saldo con la tradizione fotografica in cui sono nati e cresciuti, dall’altro, stanno mostrando il loro (necessario) distacco da questa tradizione; un chiaro e sano segno di continuità di cui attendiamo con ansia di conoscere gli sviluppi nel tempo a venire.

È ovvio poi il fatto che queste poche righe affermino concetti e trattino solo una parte relativa alla storia della fotografia marchigiana e che siano molti i nomi dei fotografi e dei numerosi sodalizi che hanno reso (e seguitano a rendere) celebre la storia della fotografia nelle Marche.

FERRUCCIO FERRONI 

Nato a Mercatello sul Metauro (PS) ha vissuto a Senigallia per tutta la sua vita (1920-2007).
Nel 1940 viene ammesso all’Accademia Militare di Modena, e nel 1942, col grado di sottotenente, viene imbarcato con le truppe per il fronte con destinazione l’isola di Rodi in Grecia.
Dopo due anni di guerra, la prigionia in Germania e due anni di ricovero in un sanatorio, si laurea in giurisprudenza nel 1953 per poi esercitare la professione di avvocato fino al 1992. Ferroni comincia a fotografare nel 1948, divenendo ben presto il più fedele interprete delle teorie estetiche di Giuseppe Cavalli.
Nel 1950 è premiato per il complesso delle opere, al Grand Concours International de Photographie, organizzato dalla rivista svizzera Camera di Lucerna.
Cavalli - fotografo e teorico della scuola idealista e fondatore a Milano del Circolo La Bussola – aveva fondato, nel 1954, a Senigallia, il gruppo Misa: un sodalizio di giovani (oltre a Ferroni, Mario Giacomelli, Adriano Malfagia, Silvio Pellegrini, Alfredo Camisa, Piergiorgio Branzi, Bice De Nobili e altri) impegnati nell’opera di rinnovamento delle superate concezioni estetiche della fotografia italiana.
Ferroni partecipa in quegli anni alle maggiori mostre nazionali e internazionali, riportando importanti riconoscimenti, aderendo anche al prestigioso gruppo fotografo La Gondola di Venezia, diretto da Paolo Monti.
Negli anni ’50 partecipa a molte esposizioni di livello e nell’anno 1957 sospende la sua attività fotografica per potersi dedicare alla famiglia e agli impegni professionali. La riprenderà nel settembre del 1984.

Le opere in mostra
Le opere fanno parte della ricerca espressiva del fotografo messa in atto a partire dai primi anni di adesione alle teorie di Giuseppe Cavalli, (1948-1957 circa) suo maestro spirituale e amico del quale ha sempre conservato, meglio di chiunque altro, il suo stile e la sua memoria.
I soggetti denotano sempre un grande interesse verso la cultura e i modelli pittorici, ed anche verso l’importanza data alla composizione grafica. Tuttavia, in Ferroni, è presente più di un passo evolutivo ed espressivo rispetto ai suggerimenti di Cavalli e questi vanno nella direzione della cultura fotografica internazionale e soprattutto americana, con un non casuale riferimento all’opera di Ansel Adams, Edward Weston e Minor White.

IGNAZIO MARIA COCCIA 

È nato a Madrid nel 1974. Dopo alcuni soggiorni tra Spagna e Italia, vive ora stabilmente ad Ascoli Piceno. Dopo gli studi classici, si è concentrato sulla fotografia, la sua vera passione. Nel 1998 è entrato nell'Istituto Europeo di Design di Roma, anno in cui ha iniziato a lavorare come assistente fotografo nel mondo dello spettacolo.
Nel 2000 ha intrapreso una serie di viaggi in vari luoghi d’Italia e in Europa, concentrando la sua attività sul reportage sociale. Nel 2003 è entrato nella prestigiosa agenzia di fotogiornalismo Grazia Neri iniziando, l’anno successivo, un lavoro molto profondo e delicato sull’Ucrania raccontando questo paese durante la Rivoluzione arancione, il movimento di protesta sorto all'indomani delle elezioni presidenziali del 21 novembre 2004. Il lavoro è stato esposto al Festival Internazionale di fotoreportage di Roma. In questi anni ha inoltre collaborato con riviste nazionali ed internazionali quali il Financial Times, Le Monde, Sonntags Zeitung, D la Repubblica delle Donne, Sportweek, Cosmopolitan, National Geographic, Il Magazine 24ore.
Alla fine del 2006 ha deciso di concentrarsi su i vari aspetti sociali e politici dei paesi balcanici, in particolare il Kosovo dove, nel 2007, ha eseguito un intenso lavoro di reportage durante le settimane che hanno preceduto la dichiarazione di indipendenza del paese. Questo lavoro “Kosovo incertezze e sogni” è stato esposto nel 2008 al Festival Internazionale di fotoreportage di Roma. Oggi lavora come libero professionista, mantiene collaborazioni con varie riviste e seguita un progetto europeo, su cui è da tempo impegnato, sui luoghi di confine europei.

Le opere in mostra
Tratte dalla serie “Ascoli, cuore di travertino” - serie interamente esposta nel 2010 al Forte Malatesta di Ascoli Piceno - le opere rientrano nel progetto di promozione dell’antica città alla candidatura di "sito dell'UNESCO" quale patrimonio dell'umanità. Questa successione di immagini su Ascoli Piceno è un sofisticato percorso creativo, rigorosamente restituito in bianco e nero, attraverso i monumenti ascolani e il paesaggio dell'alta valle del Tronto. Con queste immagini Ignacio Maria Coccia riconosce nel travertino l'elemento di fusione fra il contesto storico urbano e quello naturalistico di una delle più belle zone della regione Marche.

MARIO CARAFÒLI 

Nasce a Corinaldo nel 1902 dove rimane per gli anni dell’infanzia. Nel 1919 si trasferisce a Milano dove frequenta gli studi di ingegneria al Politecnico. Nel 1921 prosegue i suoi studi a Torino dove nascono i suoi interessi verso la poesia, la letteratura e lo studio dei classici, che lo porteranno ad abbandonare lo studio dell’ingegneria per prendere la licenza classica.
Dalla metà degli anni ’20 inizia la sua carriera di giornalista, nel tempo sfociata in alcune durature quanto importanti collaborazioni presso ‘La Stampa’ di Torino, ‘Il resto del Carlino’ di Bologna e ‘Il Giornale’ di Genova. Nel ’30 diviene redattore de ‘La Stampa’ dove rimane per dodici anni prima di passare a ‘La Gazzetta del Popolo’ come inviato speciale. In seguito sarà vicedirettore del settimanale della Gazzetta, ‘L’illustrazione del Popolo’. Nel 1933 debutta anche come scrittore e negli stessi anni nasce la sua passione per la fotografia; negli anni ‘30 arrivò in Italia la piccola macchina fotografica Leica e Mario l’acquistò subito. Da quel momento non poté più concepire il giornalismo senza foto, in largo anticipo sui tempi.
In quegli stessi anni, a Torino, centro molto vivo della fotografia italiana, Mario conosce molte personalità della fotografia, tiene corsi e sperimenta anche il cinema, in qualità di regista, producendo Frontiere, film in cui debutta un giovanissimo Gino Cervi.
Dopo la guerra (nel ‘44 attraversò in bicicletta un’Italia devastata in un viaggio avventuroso e romanzesco da Torino a Corinaldo) e dopo la perdita del lavoro come giornalista verrà assunto dalla Società Ferrania, l’allora maggiore industria italiana di materiale fotografico, dove Carafòli rimane fino al 1966, negli uffici milanesi, con mansioni ispettive e successivamente di consulenza tecnico-artistica.
Dopo il ritorno a Corinaldo, nei primi anni ’70 egli riscopre la sua terra, mai dimenticata, alle quali tradizioni, storia e cultura dedica - attraverso la fotografia, la scrittura e ancora una volta il giornalismo - grande spazio. Cafaròli si spegne nella sua Corinaldo nel 1985, lasciando una grande eredità culturale ancora in parte inesplorata.

Le opere in mostra
Le opere compongono la serie “Le quattro stagioni” (1939-1967) un omaggio alla quotidianità della terra marchigiana e al miracolo della natura che si compie ciclicamente sempre mantenendo le sue generose promesse. Alla lentezza delle stagioni, a quel cambiamento - che nulla meglio della fotografia sa sottolineare - Carafòli si affida con la sempre rinnovata convinzione che il mezzo fotografico serva per prima cosa a testimoniare e documentare, prima ancora che a mostrare una scelta estetica.
La sua rimane una fotografia viva, necessaria allo studio sul cambiamento del nostro paesaggio. Una fotografia sempre legata alla realtà, eppure mai lontana dalla levità della poesia e della bellezza.

MARIO GIACOMELLI 

Nasce e vive a Senigallia dal 1925 al 2000.
Nel 1938 inizia a lavorare presso la Tipografia Marchigiana come garzone. Sono questi gli anni in cui nasce l’interesse per l’arte e le prime prove pittoriche. Inizia a fotografare la vigilia di Natale del 1953, giorno in cui scatta la sua prima foto al mare.
Di professione tipografo, lavorò per tutta la vita nella sua bottega e non fece mai divenire la sua ‘necessità’ fotografica una professione. Nel 1954 conosce, tramite Ferruccio Ferroni, l’avvocato Giuseppe Cavalli, da lui definito una guida e un padre, quel padre che perse all’età di soli 9 anni. Sempre nel 1954 entra a far parte del gruppo fotografico Misa, e l’anno seguente manda alcune opere ad un concorso a Castelfranco Veneto vincendo il primo premio in quattro categorie, tra cui il miglior complesso di opere. A premiarlo c’è, tra gli altri giurati, anche Paolo Monti che in quell’occasione lo definisce ‘l’uomo nuovo della fotografia italiana’. Sono questi gli anni della ricerca sulla terra marchigiana, un filo conduttore che Giacomelli non ha mai abbandonato per tutta la vita. Nel 1961 ottiene dalla casa editrice Pinguin Book una richiesta d’immagine per la copertina dell’edizione inglese di “Conversazione in Sicilia” di Elio Vittorini. Del 1963 è la prima personale di Giacomelli, a Senigallia, una mostra a cura di Sandro Genovali e Giuseppe Turroni. Nel 1964 John Szarkowski presenta la serie “Scanno” al Museum of Modern Art di New York, che acquista alcune immagini tra cui il “Bambino di Scanno”, uno degli scatti suoi più noti. Nel tempo si sono susseguite molte sue mostre e innumerevoli sono stati i riconoscimenti che egli ha ricevuto dal mondo della cultura, a livello mondiale. La sua ricerca, partita dal reale, dal tangibile, si è presto mossa verso un’indagine interiore e poetica sfociata nell’immaginario e nell’astratto. Nelle sue fotografie, sempre in bianco e nero, di cui curò personalmente la stampa fino a portare a galla i segni che lo interessavano, la realtà viene trasfigurata in idee e sensazioni.

Le opere in mostra
L’indagine sul territorio marchigiano rende Giacomelli il massimo esponente della fotografia di paesaggio italiana del ‘900. Non si tratta di semplici riprese del paesaggio: la terra, le sue coltivazioni, il susseguirsi delle stagioni - e le vicende che hanno fatto cambiare o allontanare la gente dalla pratica dell’agricoltura – sono lo specchio di una ricerca interiore molto profonda. Come Giacomelli stesso afferma: ‘Una buona parte di questi paesaggi è stata creata e ho cominciato a fare interventi sul paesaggio fin dal 1955: se trovi davanti ai tuoi occhi un paesaggio che ha solo bisogno di correzione, una aggiunta di segni, di linee, di buchi, che il caso o il contadino non hanno saputo fare, allora intervengo io. ... La natura è lo specchio entro cui io mi rifletto, perché salvando questa terra dalla tristezza della devastazione, voglio in realtà salvare me stesso dalla tristezza che ho dentro…’. Le opere sono tratte dalla serie “Metamorfosi della terra” (1960-1980).

ERIBERTO GUIDI 

Nasce nel 1930 a Fermo dove vive e lavora.
Si dedica alla fotografia dalla fine degli anni ’50, quando inizia a collaborare con l’amico Luigi Crocenzi al Centro per la Cultura nella Fotografia, partecipando nel 1957 al Festival Mondiale di Mosca. La sua attività si svolge nel campo del reportage e del racconto fotografico, privilegiando l’uso dell’immagine come vera e propria scrittura.
Crocenzi è stata una figura fondamentale per Guidi: intellettuale, amico e mentore nonché teorico del racconto fotografico, una particolare modalità di narrazione dove ogni scatto va letto come sequenza, come parte di un nucleo - la storia - pieno di significato. Guidi raccoglie e rielabora l’eredità “narrativa” di Crocenzi e con queste basi realistiche comincia il suo percorso espressivo approdando ad una visione più onirica, identificabile nei suoi lavori sul paesaggio, dove vengono a confluire elementi diversi, come certe regole derivate dal suo grande amore per la musica e la pittura. Immagini di queste ricerche arrivano alla pagine di “Life”.
È autore di diversi libri fotografici e le sue opere sono pubblicate su alcuni testi scolastici, riviste specializzate e periodici italiani e stranieri. Numerose le sue personali in Italia e all’estero (Copenaghen, Parigi, Bordeaux, Bruxelles, Mosca, New York). Nel 1981 collabora, con una serie di sue immagini, alla realizzazione del film per la Rai “Il segno e il paesaggio”.
Nel 1993 è nominato Maestro di fotografia dalla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche. Fototeche e Musei italiani e stranieri conservano raccolte di sue opere.

Le opere in mostra
Le opere fanno parte della serie ‘Campi quadrati’ (1998).
“Il quadrato è sinonimo di perfezione, per alcune religioni, il simbolo della terra. Nessun taglio ‘violento’ orizzontale o verticale, un armonico omaggio alle nostre colline.” Con queste parole il fotografo presenta le motivazioni tenui ma salde della sua ricerca. Il critico Giocondo Rongoni afferma che i Campi Quadrati sono “…popolati di piante e di spighe, scalfiti solo dalle ‘incisioni’ del contadino operatore, dalle tracce leggere della sua macchina trattore. Ubbidisce alla terra, Guidi… dove baci, lacrime e ricordi si mescolano alla polvere e alle zolle, cellula terragna originaria”. Secondo Rongoni le opere di Guidi possono essere definite “…delle ‘impressioni’ prodotte nel suo laboratorio di compiaciuto alchimista oltre che inesausto incisore della materia con i suoi tagli di luce sapienti”.

GIOVANNI MARROZZINI 

Nato a Fermo nel 1971, inizia la sua carriera come fotografo nel 2002. Fra il 2002 ed il 2004 lavora in Zambia, Kenia, Tanzania ed Etiopia per ONG nazionali e internazionali. Nel 2005 è in Argentina con un progetto fotografico per l’Associazione Tuttiigiorni Onlus. In Etiopia svolge una ricerca sulle cause e gli effetti della malaria cerebrale presso il St. Mary General Hospital di Dubbo. Nel 2006 per la Fondazione Produbbo Onlus realizza un lavoro sulla condizione della donna nel Wolayta (Etiopia), affrontando anche il delicato tema delle mutilazioni genitali femminili, da cui nascerà il libro EVE (Damiani Editore). Realizza l’opera FALENE, presso una comunità di non vedenti a Soddo (Etiopia), con la quale vince la manifestazione “Crediamo ai tuoi occhi” di Bibbiena. La Comunità Gruppo Famiglia di Porto San Giorgio gli commissiona un reportage sul reinserimento in società di ex pazienti manicomiali. Ma è con Hotel Argentina che si aggiudica Portfolio Italia Gran Premio Epson 2006.
Nel 2007 in Argentina studia il fenomeno migratorio marchigiano per conto della Provincia di Fermo/Regione Marche: nasce la pubblicazione ECHI (Damiani editore 2008). Realizza Abito, sul concetto di abitare nelle comunità di immigrati della Provincia di Fermo. Vince a Madrid il Premio internazionale di fotografia umanitaria Luis Valtueña ed è il migliore Autore ad Orvieto Fotografia.
Nel 2008 risiede per sette mesi in Palestina e lavora sullo stato di salute fisica e mentale della popolazione nella West Bank e nella striscia di Gaza, per conto della Ong “Medicos del Mundo” e per il WHO (World Health Organization). Nel 2009 lavora per la rivista giapponese “Courrier Japon” al progetto This day of change, sull’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca. Nel 2010 continua la sua ricerca sulla salute mentale in Albania, presso sugli istituti psichiatrici di Elbasan e Scutari. Per la Ong CICa (Comunità internazionale di Capodarco) realizza in Camerun indagini video/fotografiche ed un innovativo progetto fotografico sulla condizione di vita degli agricoltori delle foreste: LA NOUVELLE SEMENCE. Nel 2011 è in Paraguay per la ONG Funima International. Al momento sta viaggiando con un camper per tutta Italia con il progetto ITAca – Storie d’Italia (www.itaca.me) che si propone di realizzare uno spaccato della vita italiano l’anno del 150° anniversario dell’Unità del Paese. Ha al suo attivo più di 40 mostre tra personali e collettive.

Le opere in mostra
Il dittico in mostra porta il titolo di “Ti canto a me” (2009). Cosa accomuna la vita e la morte? Questa è la domanda. Una delle risposte, secondo il fotografo è: l'inevitabilità, valore in grado di superare ogni barriera che di solito, mettiamo noi da soli nella nostra vita. Spesso non ci accorgiamo dell'inevitabilità della vita e della morte, non sappiamo ascoltare il suono del pendolo; riusciamo solo a percepire quando questo si ferma. “Quando, in quel cimitero fotografato nelle Marche, ho visto il rosario appeso accanto alle foto dei defunti, il quale aveva tracciato con il favore del vento delle striature sul muro, non ho potuto fare altro che fermarmi e fermare. Quel rosario… è come se avesse strisciato sul muro come il pendolo di un orologio mille volte, allora ho pensato al concetto di inevitabilità e fotografando gli alberi, e stampandone poi i rami fuori dalla cornice, volevo enfatizzare questo concetto”.

LORENZO CICCONI MASSI 

Nasce a Senigallia dove tuttora vive. Nel 1991 discute la tesi di laurea in Sociologia “Mario Giacomelli e il gruppo Misa a Senigallia” e comincia il suo lavoro di ricerca fotografica in bianco e nero. Nel 1999 si classifica primo al Premio Canon Giovani Fotografi. Dal Gennaio del 2000 è uno dei fotografi dell’ agenzia milanese Contrasto e in questi anni i suoi lavori vengono premiati in numerosi concorsi, pubblicati dalle maggiori testate italiane e straniere, tra cui Images e Newsweek, ed esposti in varie personali tra cui quella alla Treffpunkt Galerie di Stoccarda e allo Stadthaus di Ulm in Germania. Dal 2006 alcune sue stampe fanno parte della collezione del Centro Internazionale di Fotografia Spazio Forma di Milano. Nel 2007 è premiato nella sezione “Sports features singles” al World Press Photo di Amsterdam, con un lavoro sui giovani calciatori cinesi. Sempre nel 2007 riceve il premio G.R.I.N., intitolato ad Amilcare Ponchielli, per il lavoro “Fedeli alla tribù” ed espone a palazzo del Duca di Senigallia la mostra “Viaggio intorno a casa”, con catalogo edito da Contrasto, una mostra riproposta al Centro Internazionale di Fotografia di Milano Spazio Forma e, in parte, nel 2007, alla fiera Paris Photo, il Salone dell'Arte Fotografica di Parigi. È uno dei quattro fotografi che hanno illustrato il volume “Solo in Italia” con testi di Antonio Pascale. Nel 2008 espone nuovamente a Paris Photo una nuova serie dal titolo “Cammino verso niente”. Del 2009 il suo lavoro “Quando il cielo si fa bianco”, esposto alla galleria Leggermente fuori fuoco di Salerno.
Nel 2010 partecipa a una mostra antologica presso il teatro dei Dioscuri a Roma e nello stesso anno espone di nuovo allo Spazio Forma di Milano la serie “Nature”. All’attività di fotografo Cicconi Massi affianca da diverso tempo un’altra sua grande passione, il cinema, ed ha esordito nel 2003 con il lungometraggio “Prova a volare” che ha fra gli interpreti Ennio Fantastichini, Antonio Catania e Riccardo Scamarcio. Per i 10 anni dalla scomparsa del grande fotografo senigalliese ha realizzato il film “Mi ricordo Mario Giacomelli” con la partecipazione dei più importanti personaggi della fotografia e dell’arte italiana.

Le opere in mostra
Tratte dalla serie “Paesaggi delle Marche“ (2000-2005), le opere in mostra fanno parte di una ricerca che si sviluppa e trae suggestioni dalla realtà umana e paesaggistica della sua terra. Come egli stesso afferma: “Torno indietro in una strada bianca appena percorsa. Tutto quello che mi era apparso prima, è cambiato. La luce è diversa, il mio punto di vista non è più lo stesso. Sembra un altro luogo. Continuo a sorprendermi delle mie colline, dei casolari abbandonati, dei ragazzi che incontro per strada. Mi sento un esploratore che ha scoperto luoghi unici e situazioni meravigliose. Uno che parte ogni volta entusiasta di fare solo un lungo viaggio intorno a casa.”

MARIO DONDERO 

Nasce a Milano nel 1928 da padre genovese e madre milanese. A sedici anni decide di partire per il confine italo/svizzero con l’intento di unirsi come volontario alla lotta partigiana nella Repubblica dell’Ossola.
Nel 1950 comincia ad avvicinarsi professionalmente al giornalismo e dopo un breve periodo da freelance, ottiene il suo primo incarico dal quotidiano Milano sera, per cui si occupa di cronaca nera. Sono questi gli anni in cui frequenta il bar Giamaica a Milano, il ritrovo di giovani intellettuali dove conoscerà fotografi, architetti, poeti e personalità che a breve sarebbero divenute, come lui, quanto di meglio la cultura italiana ha prodotto nel primo dopoguerra.
Dal 1954 vive per un lungo periodo a Parigi, poi successivamente a Londra, Roma, per tornare a Parigi nuovamente. Oggi, da più di dodici anni si è trasferito nella città di Fermo da cui, come lui stesso ha dichiarato, è stato sedotto. Mario Dondero, è uno dei più noti fotoreporter italiani. Continua a girare il mondo e a ritrarre gli uomini e la loro storia, per giornali, riviste e associazioni umanitarie.
Come egli stesso ha affermato: “Se non vedessi la fotografia come documento, come testimonianza possente della storia e dei fatti, prevarrebbero in me altri interessi. Parlo di interessi sociali, politici, molto più importanti per me dei fatti estetici. È dall’importanza della fotografia come strumento di assoluta testimonianza che nasce il mio impegno come fotografo.” È membro onorario della Compagnia Unica dei Portuali di Genova.

Le opere in mostra
Le opere fanno parte di un racconto fotografico dal titolo “Strade di Cartoceto” (2005) in cui il fotografo ha percorso un cammino di conoscenza verso questo paese marchigiano e verso la sua gente.
Attratto come sempre dalla voglia di conoscere la storia, di capire e venire a contatto con il luogo avvicinandosi alle persone attraverso il suo obiettivo discreto, Dondero ci restituisce l’idea della vita quotidiana nelle Marche, dello scorrere sereno del tempo dei luoghi di provincia, della calma e della serenità: condizioni emotive preziose e massimi punti di forza di questa regione.
Come ha ben espresso il critico e giornalista Massimo Raffaeli: “I volti dei cittadini, le occasioni colte dentro una misura sempre quotidiana, normale, le cose stesse catturate a Cartoceto dalle immagini di Mario… dicono che non solo esiste un legame sociale, ma che anzi, e soprattutto quelle persone, comunicano nella misura in cui non sono sole, mai, compresi gli istanti in cui fisicamente lo sembrano… a Cartoceto la presenza di un coro, di un ‘noi’ che non ingloba l’’io ma lo esalta, o meglio ne libera il potenziale relazionale e sociale”.

RICCARDO GAMBELLI 

Nasce a Senigallia nel 1931. Inizia a fotografare nei primi anni del 1950 in compagnia dell’amico Mario Giacomelli, anche lui ai primi scatti. Insieme ricercano nei paesaggi della campagna marchigiana, nelle marine di Portonovo, nella quotidianità della vita di paese, i soggetti, le atmosfere che meglio esprimono le loro personali sensibilità, già ben definite e originali.
A Senigallia vive il maestro Giuseppe Cavalli: a lui Gambelli si affiderà nel suo percorso formativo, accogliendone scelte tecniche ed estetiche, accettandone la disciplina ed i giudizi sulle creazioni.
Con il Gruppo Misa le fotografie di Gambelli, rigorosamente selezionate dal maestro Cavalli, partecipano a numerose esposizioni nazionali ed internazionali ricevendo riconoscimenti.
L’indole abbastanza schiva e riservata lo rende non completamente a suo agio in ambienti mondani dove l’apparire è preferibile all’essere: ciò allontana poco a poco Gambelli dalla foto d’arte. Il Museo Comunale d’Arte Moderna di Senigallia, diretto dal prof. Carlo Emanuele Bugatti, ha incoraggiato Gambelli a riprendere il suo percorso artistico interrotto, sollecitando la catalogazione delle sue opere e la pubblicazione del catalogo che comprende le centinaia di foto mai esposte.
La qualità degli ultimi scatti di Gambelli, nonostante decenni di lontananza dall’obiettivo e dalla camera oscura, sono la testimonianza della sua cultura fotografica, frutto dell’esperienza svolta sotto la guida del maestro Giuseppe Cavalli. Un’esperienza che ha permesso alla fotografia del gruppo Misa di Senigallia di oltrepassare i confini regionali e rappresentare ancora oggi riferimento nazionale ed internazionale nella storia della fotografia.

Le opere in mostra
Le opere fanno parte della ricerca attuata da Gambelli tra il 1952 e il 1960. Luoghi in cui il paesaggio prevale sulla figura umana che, quando presente, rimane una macchia tenue messa tra noi e il mare, che mai sovrasta. Il documento sul territorio (ad esempio in “Agricoltura nelle Marche”) si affianca all’esperienza estetica che il soggetto gli suggerisce con le sue linee.
Gambelli è di certo un autore di grande spessore in grado di farci rivivere, con i suoi scatti, il ricordo di una terra di cui abbiamo nostalgia, come ogni cosa che appartiene al nostro più intimo passato.